16. Marzo 2021 Nordest: appunti di un headhunter tra storia d’impresa, economia e geopolitica
Senza geopolitica non c’è economia.
Questo postulato dal sapore anacronistico, la cui veridicità è proporzionale alla rilevanza che la stessa discussione geopolitica continua a conquistare quotidianamente nei main media, ci indica l’importanza di allenare un pensiero strategico in grado di intercettare la traiettoria di una comunità, nella sua dimensione storica, culturale ed antropologica ancor prima che economica, ed indipendentemente dai suoi vincoli formali.
Per tentare di orientarne l’evoluzione in funzione delle sue ambizioni.
Da cittadino non autoctono, felicemente integrato e definitivamente assimilato, in quanto tale fortunatamente sollevato dalle scelte di campo durante i tanti derby regionali, tento questo esercizio con la passione di chi rivolge lo sguardo ad un “luogo del cuore”.
Al contempo, è un esercizio al quale applico con la visione e la sensibilità di chi quotidianamente per mestiere, si trova al fianco di imprenditori e manager in qualità di advisor per determinare scelte organizzative che siano coerenti con gli obiettivi strategici aziendali.
Nel passaggio dal vissuto quotidiano a questi appunti, mi muoverò sfruttando i cliches, inevitabilmente semplificando, ma per una buona causa comune: sostenere l’evoluzione di un sistema territoriale che è fatto di storie d’impresa tra il geniale e l’incredibile e la cui comprensione passa necessariamente dall’analisi storica e socio economica di questa terra, oggi più che mai di fronte ad una irrinunciabile chiamata ed opportunità.
‘Ndemo.
Alle origini dell’eccezione
Pur trovandoci di fronte ad un’entità viva e reale nell’immaginario collettivo, dai tratti peculiari estremamente caratterizzati, tentare una definizione di Nord-Est che vada oltre il dato cartografico è un compito estremamente complesso.
Locomotiva industriale, (ex) Repubblica Serenissima, sponda adriatica della Mitteleuropa, Texas d’Italia, fino alla neocostituita Repubblica del Pojanistan sono solo alcuni tra i luoghi comuni utilizzati più di frequente, ognuno di essi descrivendo tra il serio ed il faceto, il nostalgico ed il provocatorio, uno dei differenti volti del Triveneto, spazio dove non vale la legge dei vasi comunicanti.
Sul piano strettamente fisico, ci riferiamo ad una superficie che comprende almeno tre regioni, di cui due a statuto speciale, abitata da oltre 6 milioni di persone. Notoriamente, tra le più capaci del pianeta.
Equidistante dalle Alpi e dai territori irredenti che rientrano nei nostri confini da poco più di un secolo, quanto da Piazza San Marco, concentrato a ridosso dell’A4 e dell’area pedemontana, il deep veneto che si presta a sineddoche per gli stereotipi si concentra nel pentagono che racchiude Padova, Vicenza, Mestre, Treviso e Bassano.
Una cronostoria semplificata dell’evoluzione macroeconomica del paese ci permette di identificare le peculiarità del Nordest evidenziandone, attraverso le chiavi interpretative prescelte, le linee di faglia e gli elementi caratterizzanti e ricorsivi.
Nella fase del boom degli anni ‘50 e ‘60, epoca in cui l’eccezionalità di uomini straordinari ed illuminati permise ad una nazione reduce dalla sconfitta bellica di generare conglomerati industriali presto competitivi a livello globale, in quei settori che oggigiorno definiremmo strategici (tutelabili nel quadro della Golden Power) ed atti a guidare il salto tecnologico, il Nordest resta sostanzialmente periferico rispetto a queste dinamiche ed in ritardo nel suo processo di emancipazione dal modello agricolo, rappresentando al contrario un bacino di emigrazione tanto verso l’estero quanto verso l’originale triangolo industriale. Attore inizialmente subalterno sul piano economico, l’idealtipo veneto manterrà a lungo i panni del servitore anche nella cultura di massa rappresentata dalla settima arte.
L’inversione di tendenza e lo scatto in avanti si concretizzano nei decenni successivi, ininterrottamente dai primi anni ’70 alla seconda metà degli anni ’90.
Il miracolo della reazione
Esaminando i dati economico-strutturali in termini relativi, il Nordest si colloca rapidamente ai vertici mondiali per sviluppo industriale registrando tassi di crescita costanti comparabili a quelli delle aree più evolute del globo. Una performance impressionante in termini di incremento aggregato di Pil, che analizzata nella sua congenita polverizzazione dichiara fin dai blocchi di partenza una alterità strutturale rispetto ai modelli organizzativi protagonisti del precedente miracolo economico originato nei poli industriali chiave del paese. Back in the days, in parallelo alla costante agroalimentare, l’imprenditoria veneta inizia a distinguersi in cluster quali l’elettrodomestico, il legno-arredo, l’industria conciaria, abbigliamento accessori ed occhialeria, oreficeria, condizionamento e refrigerazione, in particolar modo nella meccanica di precisione e nella componentistica.
Questo livello di osservazione dimostra quanto la morfologia del Nordest fosse inizialmente anticiclica rispetto alle coeve dinamiche nazionali, ma in anticipo di quasi mezzo secolo sulla loro evoluzione generalizzata. La scarsità numerica di corporation tricolori ed il ripiego su un’economia di PMI e microdistretti, posizionata negli anelli intermedi delle catene del valore globali e fisiologicamente passive rispetto alle evoluzioni dei mercati ed alle scelte degli stakeholders, sono oggi riflessioni ricorrenti di banale attualità. Quella regione segnata con un punto di domanda geoeconomico che (si narra) lo stesso centro studi del Copasir facesse difficoltà a codificare, in tempi non sospetti creò l’archetipo delle aziende champions piccole e belle in perenne complesso di inferiorità dimensionale.
La cosiddetta rivoluzione del “metalmezzadro” fornì dunque un modello alternativo rispetto al sistema di Nordovest ed agli altri indotti cresciuti a ridosso delle grandi aziende a partecipazione statale, mantenendo con fierezza l’impianto valoriale di base ancorato ai valori della famiglia, del culto per il lavoro e dell’autoreferenzialità territoriale, in abbinamento ad uno scetticismo ostile nei confronti dell’autorità centrale e della burocrazia.
Più che nella cintura torinese, le similitudini lungo lo stivale vanno eventualmente cercate in alcuni tratti della dorsale adriatica: l’industria del bianco, la calzatura o la produzione di mobili trovano paesaggi simili nelle Marche o nei distretti pugliesi di riferimento.
Nel frattempo gli equilibri geopolitici cambiano, con essi mutano gli interessi che sottendono alla lettura ed alla interpretazione delle mappe. Disciolta la cortina di ferro, inaugurato il secondo tempo della Pax Americana con il rebranding della globalizzazione, da periferia orientale “zona cuscinetto” esposta al blocco sovietico, il Nordest si riscopre al centro di un’Europa in fase di allargamento. Ed il Triangolo sposta il suo asse.
Professionisti allevati e cresciuti nelle più avanzate “scuole di management” in giro per l’Italia scelgono di sposare le loro competenze con la spregiudicatezza di imprenditori coraggiosi e visionari: mentre la galassia IRI si sgretola ed il paese capitola nella Seconda Repubblica, il modello del Triveneto raggiunge il suo apice in termini quantitativi e qualitativi, contaminando finalmente le funzioni di staff — direzione Risorse Umane in primis — con la creatività e l’entusiasmo avanguardista nati a bordo macchina. Glasford partecipa a questa stagione straordinaria, muovendo i primi passi proprio da Vicenza.
Il sistema regionale si fa dunque case history internazionale, gli indicatori fotografano la primazia per livello occupazionale, qualità della vita e servizi sociali. Nasce un dibattito sulla ricetta per garantirne la sostenibilità, il consolidamento e l’ulteriore evoluzione, indicando le leve necessarie per trasformare il miracolo in best practice (possibilmente esportabile nel resto del paese).
Due su tutte: capability finanziaria per sostenere i processi di aggregazione, managerializzazione ed internazionalizzazione; sviluppo delle infrastrutture per adeguare la circolazione del capitale umano e l’interscambio di idee — prima ancora che delle merci – a cotanta aspirazione.
L’equivoco autoreferenziale
Cosa non ha funzionato e perché non si è concretizzato quel tanto auspicato volano “di scala e di scopo”? E’ possibile individuare delle piste differenti da quelle già battute a livello accademico ed associativo per comprendere come mai, dalle ambizioni di un nuovo modello di competitività globale del made in Italy, ci ritroviamo a celebrare nella maggioranza dei casi un efficiente ed integrato “artigianato industriale” glocal e 4.0?
Come avrebbe sentenziato il Generale De Gaulle, “vasto programma”.
A livello macroscopico, è innanzitutto necessario riconoscere che l’accesso a settori strategici come Difesa, Energia, Trasporti o Comunicazioni necessita per forza di cose l’appoggio coordinato di una controparte politica governativa consapevole di se stessa, degli interessi della nazione e della sua collocazione nell’agone internazionale. Una guida che definisca le linee rosse da seguire ed interpreti la dimensione economica del Paese come un suo strumento di affermazione. Intestandosene una pianificazione strategica di lungo raggio degna di questo nome. Per ulteriori informazioni citofonare al Ministère de l’Economie et des Finances: ironia della sorte, dalle Dolomiti al Golfo di Trieste l’atteggiamento oltralpino negli affaires Luxottica e Fincantieri ci dimostra quale sia la tattica ricorrente del nostro partner europeo nell’affrontare le questioni davvero importanti.
In definitiva, per uscire dal mare nostrum e solcare gli oceani in sicurezza non basta presidiare commercialmente l’export diversificando i mercati di sbocco, investire costantemente in R&D, puntare alla sostenibilità o dotarsi di strutture corporate.
E’ necessaria l’intelligence.
La magistrale interpretazione di Favino in Hammamet e la serie di successo 1992 con Accorsi sono entrambe espressioni di un doloroso ed irrisolto sentire comune. Lungi da qualunque giudizio di merito, in coda per l’ennesimo processo di “pacificazione nazionale”, in questa sede ci interessa constatare che nella fase di passaggio tra secondo e terzo millennio, tra Lira ed Euro, con il quadrante europeo post guerra fredda in cerca di un nuovo equilibrio, ci siamo trovati sprovvisti di quella generazione di statisti bipartizan capace di distinguere la grammatica della politica interna da quella della politica estera, abituata ad una relazione simmetrica guardando negli occhi i pari grado delle cancellerie estere, abile nel ricercare e magnificare pro domo nostra qualunque spazio di manovra ed autonomia ci fosse concessa dalla contrapposizione East VS West. Nello specifico, ritagliandoci una sfera d’influenza lungo sponde del mediterraneo meridionale e nel quadrante balcanico. Il Pentapartito non era un governo tecnico delle larghe intese.
Successivamente, con il dibattito partitico nazionale impegnato nel muppet show dei buoni e cattivi, le opere infrastrutturali ed i cantieri in ritardo cronico e gli istituti di credito locali tristemente protagonisti delle pagine di cronaca giudiziaria, l’imprenditoria del Nordest affronta l’internazionalizzazione facendo affidamento sulle proprie energie e spinta dallo spontaneismo avventuriero che la contraddistingue: in molti casi mettendo in discussione le logiche di ieri per penetrare nuovi mercati investendo in risorse e capitale umano, raccogliendo episodi di successo ed opportunità di maturazione per i corpi aziendali nella loro totalità, in alcuni altri limitandosi ad operazioni di delocalizzazione dettate da finalità strettamente opportunistiche.
Facendo i conti alla fine, osservando il ranking delle aziende del territorio per fatturato nel corso degli ultimi venti anni, ci accorgiamo di due cose.
In primis la mancata applicazione della teoria della circolazione delle elites di Pareto: salvo le necessarie eccezioni, nelle posizioni di vertice consolidano la loro leadership i nomi e cognomi protagonisti del miracolo di cui sopra, mantenendo un sostanziale distacco quantitativo da eventuali nuovi pretendenti al podio.
La seconda evidenza non necessita di teoremi: nessun vuoto (di potere) resta vuoto troppo a lungo. Ad occupare quello spazio e i relativi posti in classifica hanno concorso aziende straniere, in alcuni casi attraverso processi di acquisizione, in altri attraverso le subsidiaries italiane con HQ nel Nordest – in questo senso va citata la predilezione culturale e logistica riconosciuta dalle aziende tedesche a Verona, che tra gli altri ospita due dei principali food retailer mondiali ed il marchio che dà il nome al più importante car maker del pianeta.
Dandone una interpretazione geopolitica, se l’espansionismo francese dimostra di prediligere le high street companies puntando sull’impatto psicologico del prestigio del brand (fashion & food), quello teutonico premia la tecnologia ed il posizionamento strategico nelle catene del valore di riferimento per l’industria domestica. Nel caso di un segmento chiave come quello dell’HVAC/R i colossi che ne partecipano alla spartizione parlano americano, giapponese, francese, olandese, cinese, finlandese e svedese, spaziando dal cuore del Friuli alla bassa veronese, dall’area tra Bassano e Feltre alla periferia di Padova.
Per un’analisi comparativa né la Milano da bere dei rampanti 80s né la sua versione da metropoli europea post Expo ci aiutano: occorre guardare dall’altra sponda del Po e domandarsi cosa ha reso preminente il vertice meridionale del nuovo triangolo industriale, tanto da indurre i giornalisti a parlare di “sorpasso emiliano”.
Ci chiediamo se quel sistema cooperativo che nei decenni dell’ideologia può aver rappresentato un vincolo al libero sviluppo d’impresa, a posteriori possa attribuirsi il merito di aver diffuso uno stile di management votato all’efficienza ed alla programmazione, impersonato dal mito di una macchina organizzativa perfettamente funzionante a tutti i livelli, trasmissibile a centinaia di quadri attraverso un oliato meccanismo di delega e controllo.
Forse queste categorie di pensiero, mutuate dal politico alla Motor Valley lungo i distretti del food, del packaging, del pharma, del tessile e della meccanica di precisione, innervano un telaio territoriale già educato a proiettarsi verso l’esterno come Collettività, perché plasmato da una pedagogia politica di matrice universalistica? Parafrasando Lucarelli e Tondini, “città d’arte e distretti industriali, le spiagge delle riviere che pulsano sia di giorno che di notte, e spesso soltanto una strada o una ferrovia a separare tutto questo… e noi le viviamo tutte queste cose, nello stesso momento, perché siamo gente che lavora a Bologna, dorme a Modena, e va a ballare a Rimini, e tutto ci sembra comunque la stessa città che si chiama Emilia Romagna.”
Nella regione che riuscì ad industrializzare il comparto turistico, inventando un modello di business fondato sull’innovation in hospitality e sull’efficienza dei servizi in barba ai panorami o alla bellezza dei fondali, non è stato difficile per la Riviera contaminare l’entroterra manifatturiero con la cultura dell’apertura e dell’accoglienza.
Del resto il mantra pubblicitario ci ricorda da oltre trent’anni che dove c’è un piatto di pasta c’è casa, e la comunità è più grande (ed importante) di un supermercato: L’Emilia accoglie tutti alla sua tavola per fare business.
Una via Emilia contro tanti campanili e troppo campanilismo.
Ma a poco più di un’ora di distanza, risalendo lungo l’Autobrennero, qualcuno ha già raccolto il tovagliolo di sfida superando la soglia psicologica del mezzo miliardo di fatturato conquistando gli Stati Uniti con il sorriso ed i tortellini.
Un mito in trasformazione
Allora come si riparte?
Come nella migliore tradizione resiliente, siamo già ripartiti. Iniziando a trasformare in opportunità di crescita i presunti elementi di debolezza.
Nell’era della digital disruption e dello stravolgimento sempre più veloce dei modelli di go to market, un territorio così diversificato per varietà di distretti e specializzazioni di prodotto sta garantendo interazioni virtuose rappresentando un laboratorio permanente per l’innovazione.
Parallelamente, la stretta prossimità di aziende a guida imprenditoriale, imprese multinazionali e realtà partecipate da investitori istituzionali qualificati, permette il confronto e stimola la contaminazione tra modelli di governance e politiche gestionali differenti, processi di creazione del valore eterogenei, generando un interscambio virtuoso di idee e storie di vita d’impresa difficilmente replicabile altrove.
Ad esempio il comparto farmaceutico locale, reso ancor più strategico dalla pandemia globale, rappresenta esemplare dimostrazione di questo connubio grazie alla compresenza di centri di ricerca, unità produttive di prestigiose realtà straniere ed innovative imprese locali a loro volta sempre più globali e performanti.
Credo che il contributo di chi opera nella consulenza organizzativa risulti ingrediente chiave di questa alchimia, favorendo il dialogo e stimolando la cooperazione solidale tra i tanti attori coinvolti. Sorrido quando mi si dice che sono un head hunter fuori dagli schemi, ma è così che noi di Glasford viviamo la nostra missione: la capacità di valorizzare le differenze traendone una sintesi ed una visione strategica a beneficio dell’evoluzione e della competitività del territorio, passa per la piena emancipazione del nostro capitale umano la cui ricchezza va portata a sistema ed esaltata.
Al contempo la vivacità delle iniziative promosse da network e associazioni di professionisti come AIDP o ANDAF, la spinta delle sezioni giovanili delle territoriali di Confindustria verso i processi di integrazione dimostrano la chiara volontà della futura classe dirigente del Nordest di abbandonare l’introversione per seguire ambizioni di ben altro respiro. Per far sentire più forte la propria voce oltre il territorio ed accreditarsi alla guida delle proprie aziende con maggiore coraggio, portando a bordo i collaboratori di ieri e di domani coinvolgendoli in una visione del futuro che traghetti il famigerato passaggio generazionale.
Come non citare l’emblematica nuova vita del Porto di Trieste, assunto ormai ad esempio di eccellenza gestionale e punto di riferimento del dibattito sulla logistica a livello mondiale, grazie alla tenace lungimiranza di un Manager veronese adottato e difeso a furor di popolo dalla comunità giuliana. Utilizzando quella visibilità geopolitica dovuta all’espansione delle Vie della Seta lungo le rotte europee, sapendo tradurla in investimenti e progettualità, crescita occupazionale, giungendo all’accordo che convertirà la scomoda “Ilva del Triveneto” in una nuova piattaforma logistica ed hub ferroviario che consolideranno la piattaforma al centro del sistema di collegamento euroasiatico.
Perché compiere una scelta di campo tra cultura manifatturiera continentale e naturale vocazione marittima, quando potremmo esprimerci pienamente in entrambe le estensioni magnificando le nostre potenzialità al quadrato?
Se Roma non se ne interessa, poco importa.
La stagione delle rivendicazioni per le mancate attenzioni, l’asimmetria fiscale, l’inefficienza della burocrazia centrale e tutte le comprensibili ragioni che hanno sostanziato la narrazione del Nordest identitario negli ultimi decenni, va archiviata perché manifestatamente infruttuosa, poggiando la sua retorica su un principio di subordinazione ab origine.
Urge dotarsi della magnitudo di un nuovo mito per trainare la realizzazione di un sogno, un mito che trascenda gli interessi strettamente regionali e le logiche autoreferenziali, che ambisca a riportare l’attenzione e gli occhi del mondo sull’universalità che questa macroregione può rappresentare.
Va ribaltato l’equivoco indipendentista, perché proiettato al minuscolo, per intestarsi al contrario una superiore responsabilità che riempia di meritocrazia e modernità un diverso paradigma nazionale del fare bene e insieme.
E’ la prova della maturità tanto attesa quanto inevitabile, il passaggio generazionale di un territorio e della sua classe dirigente.
Ricordiamo le parole del compianto Gianni de Michelis rivolte ad uno dei ministri veneti di recente nomina nel momento del suo esordio in politica: “Vuoi farla? Allora studia come funziona il polo industriale di Marghera, studia il piombo, lo zinco, l’alluminio, la cantieristica, impara i cicli produttivi, studia i mercati, i lavoratori, le relazioni sindacali, i conflitti, perché da lì parte la politica”.
La nostra parte
Questi appunti condivisi oggi con voi sono il frutto di un’eredità professionale compiuta nel corso degli anni attraverso il confronto con amministratori delegati, uomini di impresa e manager che ogni giorno decidono e creano valore in un territorio in cui mi riconosco e mi identifico, perché ho avuto la possibilità di aderirvi per scelta.
E’ un confronto che attecchisce nel campo di mia competenza, alle analisi geopolitiche e socioeconomiche si uniscono quindi quelle di mestiere in Glasford: Tridimensionalità e Co-progettazione sono le due direttrici lungo le quali ci muoviamo per esplorare i mercati, conoscere a fondo le imprese e creare una relazione di reciprocità e fiducia, consolidata nel tempo.
Rileggendo questi appunti e pensando ad un futuro da costruire insieme ritengo che, oggi più che mai, la classe dirigente debba guidare una ulteriore trasformazione del Nordest, disegnando ed informando organizzazioni a misura dei propri valori, dosati saggiamente con capitale umano.
Nel far questo, la capacità di lavorare in partnership con e tra aziende, persone, istituzioni, non potrà che favorire la crescita virtuosa dell’intero sistema.
Tre anni fa ho abbracciato il progetto Glasford anche per il comune sentire con questo Credo aziendale. Noi siamo convinti sia questa la leva per contribuire ad un nuovo miracolo economico e quotidianamente ci impegniamo nel percorso di People Discovery, anche a rischio – con gioia ed audacia – di ridefinire la semantica dell’executive search
Marco Alici Biondi, Associate Partner Glasford International Italy
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